07 aprile 2017
La proiezione del film “L’età d’oro” venerdì 7 aprile 2017 è stata organizzata dall’istituto Italiano di Cultura al Goethe Loft di Lione
Presente la regista Emanuela Piovano.
“A Lione le prenotazioni sono state talmente tante che si è dovuta aggiungere una stanza e non si è potuto tirare la tenda nella saletta prevista per la proiezione.
Questo ha fatto sì che la prima parte della proiezione avvenisse alla luce dato che non era possibile oscurare il lucernario.
Ho cercato di tirare un po’ in lungo la presentazione, ma visto che era oltretutto una bellissima giornata non si è fatto notte fino a metà film.
Ho dunque dato l’avvio al proiezionista alludendo a Lione città magica (e triangolo con Torino e Praga) visto che uno dei temi dell’Età d’oro è proprio la proiezione in piena luce, come se la forza delle immagini potesse competere con la luce stessa dell’arena cinematografica.
Quindi come L’arroseur arrosé sono stata ripagata dall’aver lanciato questo sasso paradosso e proprio a Lione (città tra l’altro natale dei fratelli Lumière) ho dovuto proiettare L’età d’Oro en plein lumière.
Sfida vinta. I circa 150 spettatori hanno seguito passo passo le ironie del film, le allusioni, le commozioni, incoraggiandomi a stare anch’io con loro, cosa che non faccio quasi mai.
Molte le domande e le felicitazioni a fine proiezione: nessuna domanda era di chiarificazione, dunque la sintonia con il pubblico molto eterogeneo e di svariate generazioni è stato totale. Come ad Annecy e a Mons peraltro.
Ma il commento più gradito è venuto da una giovane studentessa, che mi ha detto di amare il cinema di relazione, dove le relazioni tra i personaggi sono approfondite e sviscerate.
Non si parla mai abbastanza delle relazioni al cinema, perché i critici la ritengono un’escursione non pertinente con l’estetica, la ricerca linguistica, la citazione e il controcanto dei maestri.
E poi parlare di relazioni al cinema è un po’ come l’esecrata lettura dei film alla luce dell’ideologia, una sotto-lettura insomma che da quando esiste lo strutturalismo è praticamente vietata.
Vengo adesso da una rilettura di Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, piccolo gioiello di un’attualità inaudita che fu stroncato da Goffredo Fofi e dai quaderni piacentini perché il femminismo filosofico era ancora lontano, e anche il situazionismo.
Infatti l’Età d’Oro è un omaggio a questa generazione successiva, (Annabella Miscuglio cui il film rende omaggio è stata la traduttrice in Italia di Veneigem), dove è vero che si decostruiva la narrativa e quindi anche ogni possibilità di comprensione, ma dove è anche vero che qual movimento era tutto fuorché intellettualistico, cerebrale, avulso.
Era invece un movimento che incominciava a rendere permeabili i passaggi dall’uno all’altro, l’utopia di rivedere i modi di stare insieme oltre la famiglia, il rapporto con i figli al di là di tutti i paletti imposti dai protocolli di comportamento.
Ecco: aver voluto fare di questo omaggio un’opera narrativa (come sottolinea Adriano Aprà citandomi nel nuovo progetto di Fuori Norma) e non neo-sperimentale, come forse ci si sarebbe potuti aspettare, è stata dettata non da un compromesso di mercato o di leggiblità, ma proprio dall’aver colto il seme più profondo posto da Miscuglio ad insegna del suo testamento.
Il seme che l’avrebbe portata alla fiction, alla sceneggiata, al nazional popolare su cui stava lavorando negli ultimi tempi insieme al suo collettivo. Il seme che noi autori di età d’Oro abbiamo creduto individuare nel mescolare fantasmi e inconscio a relazioni e storia, dialogo lineare e piani sfalsati su cui raccogliere le immagini e le immagini delle immagini, e le immagini delle immagini delle immagini.
Piccolo fiore che sboccia per gli spettatori che hanno avuto – come i francesi, e i belgi, forse europei? – una scolarità all’audiovisivo, che dunque si abbandonano al processo significante senza blocchi, dando vita a quello che ognuno di noi che lavora dietro (nell’orto prima dell’assaggio e dietro le quinte è uguale) saluta come un piccolo miracolo anche se dovrebbe essere il normale sbocco del proprio impegno.
Alludo al piccolo grande fiore del riconoscersi, (altro grande filone della critica cinematografica abiurato, quello del rispecchiamento alla Lukacs), del ritrovare nel film qualcosa che si intuisce ma che il film aiuta a svelare, o solo a complicare.
E’ una bellissima esperienza per un autore uscire dalla proiezione di uno dei suoi film e sentire che le persone che vi hanno assistito ne hanno bisogno, lo riconoscono come un dono.
Così è stato anche a Lione, dove un istituto italiano di Cultura lotta per la propria sopravvivenza (da più di un anno il nuovo direttore non è ancora stato nominato), dove al di là dei nazionalismi i pochi impiegati fanno di tutto per scambiare con la loro città le opere del proprio paese.
Pensate che la sala di proiezione dove si svolgono le attività dell’Istituto italiano di cultura a Lione è del Goethe Institut.
Evviva allora questo circuito alternativo alle sale commerciali che sempre di più stano imparando da loro (vd dichiarazioni di Sorrenitno e altri all’ultimo convegno ANICA), viva i centri culturali dove da adolescente mi sono formata anch’io a Torino e li ricordo come tra le più belle esperienze.