EMANUELA PIOVANO A DISTANZA DI 30 ANNI CI RACCONTA IL CARCERE E CI MOSTRA QUALE POTENTE ARMA DI RESISTENZA POSSA ESSERE L’ARTE

Poesia Le rose blu, scritta e detta da Lidia nel film _Con questa poesia Lidia, una delle tante donne invisibili, una detenuta del carcere delle Vallette di Torino, nel 1988, rivendicava il diritto di esistere, di non essere dimenticata, di non dimenticare. Il 3 giugno del 1989 Lidia è una delle vittime dell’incendio che devasta la sezione femminile del carcere. Ed a lei, alla sua memoria, e al ricordo delle altre donne che persero la vita in quel tragico avvenimento, che il film “Le rose blu” è dedicato. E proprio una rosa blu è il filo conduttore del film, una rosa che entra in carcere grazie a Laura Betti,”l’amica dei poeti” e che passa di mano in mano, per raccontare ciò che le parole non sono in grado di esprimere, come la grande sofferenza di chi è privato della libertà. Un tema che avrebbe affascinato Pier Paolo Pasolini presente in spirito, oltre che con Laura Betti, anche con Ninetto Davoli, altro volto importante del suo cinema. 

“Una comunità chiusa che cerca di farsi ascoltare, che ha bisogno di riconoscersi nello sguardo degli altri per affermare la propria esistenza. Un universo claustrofobico e spersonalizzante in cui ci si salva solo attraverso la poesia.

 

A distanza di trent’anni “LE ROSE BLU”, di Emanuela Piovano ci racconta il carcere e ci mostra quale potente arma di resistenza possa essere  l’arte.

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IL MORANDINI

“Nato da Lettere dal carcere (1987) – videolettere realizzate da detenute del carcere delle Vallette a Torino con il gruppo Camera Woman – è un collage di racconti e scene di vita carceraria col filo conduttore di una rosa blu che, passando di mano in mano, finisce in quelle di L. Betti, tramite onirico, insieme con N. Davoli, verso il corpo poetico e martirizzato di Pasolini. Girato in 16 mm (con frammenti in video) e gonfiato a 35 mm, costato meno di 200 milioni e meno di 1 mese di riprese, realizzato da donne (soltanto il montaggio è dell’ottimo Alfredo Muschietti) con la collaborazione anche creativa delle detenute come attrici non professioniste, “non è un film sul carcere, opera impossibile, ricorda la terrorista Susanna Ronconi sullo schermo, citando Marguerite Duras: è un film del carcere” (A. Levantesi). È anomalo, straordinario, poetico e politico, commovente, con risvolti allegri o ironici, sempre teso ad accogliere i suggerimenti del set e risolto in linguaggio sciolto di taglio sperimentale. Dedicato alle detenute che morirono nell’incendio delle Vallette del 3 giugno 1989 e delle quali rimasero soltanto i provini in video.”

STEVE DELLA DELLA CASA , LA STAMPA, 1990

“L’idea è quella di un film poetico, che si reg­ge su storie minime […] È ovviamente un film clau­strofobico e non potrebbe essere altro essendo impostato sul­l’istituzione carceraria e girato quasi esclusivamente negli spazi delle carceri Nuove […] Il tutto all’interno di ambien­ti che sono connotati anche dal­l’assenza di tonalità cromati­che forti, il colore dominante essendo il bianco-grigio dei mu­ri e dei pavimenti, l’ocra stinta degli armadietti, il grigio ferro di brandine e sbarre. […] Rispetto alle videolettere, si è cercato questa volta di dare una struttura unitaria pur mantenendo la frammentazio­ne delle esperienze personali che vengono narrate: e il col­lante è fornito dallo spingere le situazioni, la recitazione, le storie in una dimensione oniri­ca, ritenendo che solo la fanta­sia e la creatività possano ga­rantire la sopravvivenza in una struttura chiusa e limitata qua­le è il carcere. Le detenute alternano dialo­ghi e monologhi, passaggi reali­stici e situazioni immaginate, autocoscienza e finzione, pas­sato, presente e futuro inse­guendo ogni barlume di vita, ogni stimolo per riempire il lungo vuoto di giorni che tra­scorrono implacabili e inutili. Forse il nodo irrisolto del film è proprio quello di non aver sa­puto puntare sino in fondo sul­l’aspetto visionario, di non avere insistito sulla dimensione atemporale di un mondo che ha una scansione dei tempi completamente diversa dall’ester­no”