
25 ottobre 2018
Alle ore 21:30 al Cinema Centrale di Lucca verrà presentato il film L’ARTE DELLA FUGA di Brice Cauvin.

Intervista al regista Bruce Cauvin raccolta da Claire Vassé
Come ti è venuta l’idea di adattare il romanzo di Stephen Mc Cauley?
Conosco Agnès già da molto tempo e ci scambiamo spesso le nostre letture. Conoscevamo e amavamo entrambi l’opera di Stephen Mac Cauley, e in particolare L’arte della fuga. Trovavo che ci fosse un ruolo formidabile per Agnès ma non ne abbiamo parlato subito. L’editore di Stephen Mc Cauley, Cinthia Liebow (Baker Street) ci ha aiutato per i diritti. Poi ho lavorato con Raphaëlle Desplechin-Valbrune.Adattare un romanzo straniero non è semplice. Ci siamo resi conto di quanto il lavoro necessitasse di un adattamento culturale: i francesi non si esprimono affatto come gli americani. Allora abbiamo chiuso il libro e siamo partiti da quello che ci interessava: la personalità di questi tre fratelli. Ci siamo ingegnati a trasformare questo materiale in una sceneggiatura molto francese, che significava una totale riscrittura dei dialoghi e delle situazioni. Poi naturalmente abbiamo riletto tutto il romanzo fino alla fine per verificare che non avessimo dimenticato delle scene saporite…
E come è stato il lavoro di consulente di Agnès Jaoui?
Agnès era la nostra script doctor: quando arrivavamo ad una versione che ci soddisfaceva, ci consultavamo. E lei riusciva a stanare gli americanismi rimasti!
Come hai lavorato sulla linea dei personaggi?
Abbiamo costruito questa sceneggiatura a partire da ciascun personaggio: abbiamo trascorso una settimana intera con il personaggio di Gérard. Parlavamo come lui.
La settimana seguente era intorno al personaggio di Antoine, poi di Louis… Io sono linguista di formazione e amo pensare alla parte inconsapevole delle parole, allora ho messo molta attenzione a lavorare ai dialoghi, ma anche al modo in cui ciascuno si esprime.
Antoine per esempio cerca molto le sue parole ma unicamente quando parla di se stesso. Abbiamo dovuto anche francesizzare il modo di esprimersi: gli americani amano dire chi sono, a che punto sono della loro vita… nel romanzo il personaggio di Ariel si lamenta molto della sua vita, lei dice: “Voglio cambiare la mia vita!”.
Un francese dice raramente le cose in modo così diretto. Da noi funziona la litòte, si direbbe piuttosto: “sono stufo del mio lavoro!” e l’interlocutore dovrà intuirne le conseguenze … nel romanzo Ariel gestisce un’agenzia viaggi, e mentre il suo capo se ne va in giro per il mondo lei gestisce tutti i casini compresi quelli in cui lui la mette… questo genere di agenzia è quasi scomparso a causa di Internet. Abbiamo cercato anche qui di attualizzare le cose e di inserirle in un contesto più francese: Ariel lavora nel mondo della cultura e redige dei cataloghi per le mostre; è l’alibi culturale di una società privata che concepisce delle mostre “chiavi in mano” per musei in cerca di maggiore affluenza. Io volevo denunciare in filigrana la mercificazione e l’opportunismo degli ambienti pseudo culturali. Con Raphaëlle Desplechin-Valbrune abbiamo condotto un’ inchiesta e ci siamo ispirati ad un museo parigino che per lottare contro la disaffezione degli spettatori si è rivolto ad un’agenzia di comunicazione che gli ha proposto un’esposizione alla moda ma completamente improbabile: una mostra sulle arti primitive in un museo specializzato nel XIX secolo..
La scena della colazione presenta fin dall’inizio le rispettive posizioni dei tre fratelli in seno alla famiglia.
Questa scena non è nel libro ma avevamo voglia di una scena che presentasse i personaggi così, senza parere, giusto con una storia di biscotti e croissant, per mettere in luce i rapporti tra i fratelli. Il cinema permette di mostrare tutto questo in una sola scena, molto meglio che la letteratura. Anche questo vuol dire fare un adattamento: mostrare sullo schermo quello che non è scritto ma è palpabile nelle 300 pagine di un romanzo.
Il film evoca le cose melanconiche della vita ma tu hai scelto di parlarne con una certa leggerezza…
I personaggi dell’arte della fuga sono incapaci di andare avanti nella loro quotidianità, e questo spero li renda divertenti e alla fine crei una certa empatia. Al festival di San Francisco uno spettatore mi dice: “Hannah e le sue sorelle” (di Woody Allen), finalmente ci sarà “Antoine e i suoi fratelli”… Questo mi ha lusingato! Antoine (Laurent Lafitte), cuore pulsante di questo film, perché sembra l’unico lucido, dice le cose come stanno, accetta di dire che tutto va storto. Si fa carico dei problemi dei suoi fratelli e dei suoi genitori. Eppure lui si porta dentro una ferita che rifiuta di vedere, ed è questa negazione che lo rende malinconico. E’ tutta la linea del personaggio di Antoine nel film: accettare di prendere coscienza della sua situazione.
Fedele al titolo il film fa delle giravolte, i personaggi si fanno eco…
Ho cercato di scrivere la sceneggiatura come uno spartito di musica. Ogni personaggio è uno strumento che suona una propria musica. Antoine è uno strumento a fiato, un flauto o un fagotto, Gérard piuttosto un contrabbasso, Louis una tromba e Ariel un pianoforte… all’inizio del film si comincia con Gérard. È lui che ci porta alla scena della colazione, ci porta verso il quartetto. Eppure poco a poco, sarà la musica di Antoine che ci allontanerà da questo ritratto familiare, ma quasi a nostra insaputa. Io scrivo ascoltando musica, è lei che mi ispira, ascolto 10 o 20 volte un pezzo ed ecco come mi tuffo dentro al sapore di una scena: sul set cerco di creare delle ambiguità: un adagio può cominciare con un allegro! Amo creare degli equivoci: i personaggi possono dire una cosa ma il loro corpo raccontarne un’altra. La musica ci fa percepire delle cose complesse poiché è polisemica. Ho cercato di lavorare allo stesso modo con gli attori.
Questa melodia si è anche costruita con il montaggio?
È in effetti al montaggio che mi sono reso conto che avevo soprattutto voglia di costruire questa fuga a partire dal personaggio di Antoine. Abbiamo molto modificato l’ordine delle scene, il flashback per esempio non esisteva ma ho avuto voglia di cominciare il film con lui, che lo spettatore si interroghi su quest’uomo che arriva in bicicletta e improvvisamente si mette a piangere… porsi delle domande su un personaggio è un modo per entrare nella sua intimità.
Non congeli mai un personaggio in una situazione, quando Gérard torna ad abitare dai suoi genitori questa regressione è appena un dettaglio della sua vita
Io penso fondamentalmente che sono sempre i personaggi che creano le situazioni. Non anticipo mai una situazione, questa accade grazie all’incontro dei personaggi. E cerco anche di lasciare le cose sempre in movimento, con delle contraddizioni. La vita è fatta di contraddizioni. Avevo anche voglia che queste situazioni creassero degli svelamenti un po’ come nella tragedia antica o come nel melodramma, ciascuno all’incrocio del suo destino dopo la morte del padre. Eros e Thanatos!
Fra i tre fratelli Gérard è quello che ha una maggiore evoluzione
Sì perché parte da una situazione paralizzata, lui rifiuta la realtà; Elena non ritornerà più. La maggior parte delle persone vogliono vivere secondo un cliché: essere una coppia, essere sposati o anche divorziati. Voler assomigliare a un cliché è per me la morte. Un cliché è qualcosa di immobile e vivere in due è il contrario dell’immobilità. Accettare le incertezze, le minacce della vita a due, significa restare vivi e quando c’è questa complicità c’è la vita. E’ questa la linea che seguirà Gérard e anche Antoine in certo qual modo.
Tu hai la nevrosi gioiosa…la madre per esempio, molto castratrice, potrebbe essere terribile ma è anche così divertente!
La madre dissimula una ferita che si scoprirà alla fine e che rende perdonabile questa isteria. E’ per questo che il personaggio ti coinvolge. Lei sa perché è arrivata fin lì, perché la sua coppia è lì. Prima di diventare nevrotici i miei personaggi sono integrati in un quotidiano banale un po’ come in Truffaut. Antoine è un Doinel contemporaneo: in apparenza è molto integrato nel suo quotidiano ma alla fine è anche un grande spettatore della propria vita. E’ questo che crea empatia.
Come è stato realizzato il casting?
Per interpretare Antoine volevo un attore che potesse mostrare questa parte di lungimiranza. Trovo che i comici hanno questa capacità di guardare le cose da distante, di prendere in giro gli altri e se stessi, e poi la lucidità è un ottimo strumento per mostrare la malinconia…Laurent inoltre ha una parte di mistero che lo rende molto attraente per un regista.
Agnès Jaoui era presente fin dall’inizio?
Volevo mostrare una Agnès Jaoui diversa, ma ho veramente scritto il ruolo per lei. Durante la scrittura non ci parlavamo. Volevo che lei avesse la possibilità di rifiutare e allora quando la sceneggiatura è finita le ho fatto la proposta ufficialmente e sono stato contento che lei abbia accettato. Ho adorato dirigere Agnès, noi ci capiamo bene, come me lei ama cercare, esplorare. Si tiene qualcosa, altro lo si getta, ma si sperimenta!
Con lei ho l’impressione che tutto sia possibile, sia nelle mèches blu e rosse, nei vestiti improbabili, ma soprattutto nel suo lavoro d’attrice: lei ama il rischio!
E Benjamin Biolay?
All’inizio aveva fatto dei provini per Antoine ma non funzionava, era troppo distante dal personaggio, lui stesso mi aveva detto: “In ogni caso preferisco Gérard!”. All’epoca c’era un altro attore per quel ruolo ma quando il film è entrato in produzione l’attore prescelto non era più disponibile, allora ho richiamato Benjamin e nonostante i suoi impegni ha detto subito sì. E’ come se l’avesse aspettato, io credo che quel ruolo lo allettasse molto!
Benjamin non ha paura di nulla, è scivolato nel suo personaggio senza complessi. Le occhiaie sotto gli occhi, i capelli grassi, e il maglione pacchiano… è un attore molto sensibile, molto reattivo, adoro lavorare con gli attori musicisti. Capiscono subito l’importanza della modulazione nella recitazione.
E Nicolas Bedos?
All’inizio il fratello più piccolo era un calciatore. Doveva interpretarlo un altro attore ma le date non coincidevano con il piano di lavoro. Il direttore del casting Nicolas Ronchi mi ha suggerito Nicolas. L’ho visto molto bene in questa confraternita ma ho cambiato la musica del personaggio. E’ passato dal football all… HEC! (alta scuola di specializzazione in management francese). Accordo una certa importanza alla somiglianza: Louis assomiglia a suo padre con gli occhi di sua madre, Antoine a sua madre, Gérard a suo padre.
E perché Marie-Christine Barrault e Guy Marchand?
Con Marie-Christine Barrault avevamo lavorato insieme a teatro. Io so a che punto lei possa essere generosa e non ha paura di nulla. E’ meravigliosa. Ispira una quantità di contraddizioni, di vita. Quanto a Guy Marchand, quello che gli è piaciuto è che lo statuto del suo personaggio restava indecifrabile: veramente ammalato o ricatto affettivo? Amava questa materia ambigua. Sul set adorava i suoi tre figli di cinema. Mi sono deliziato a vederlo con Marie Christine. Sono stati in questo negozio come se vi avessero sempre vissuto, litigando, bevendo whisky. Ero estasiato quando ho mostrato la scenografia del negozio a Stephen Mc Cauley che m’ha detto: ma è geniale! Bisogna subito scrivere qui un’altra scena ambientata nel negozio! e allora di colpo abbiamo scritto insieme la scena della Signora Chaussette (calzetta) interpretata dall’editrice di Stephen. In un libro non si può sentire l’atmosfera di un negozio. Nel film invece diventa un personaggio.
E infine Elodie Frégé?
Non la conoscevo. Nicolas Ronchi me l’ha presentata senza dirmi chi era. Ho amato quel suo essere una ragazza carina ma insicura. Elodie prende sempre in giro se stessa e non accetta i complimenti. Julie ha questa stessa ritrosia, è una vera innamorata, è pronta a fare la donna oggetto per mantenere Louis e a fare di tutto anche se questo ruolo la mette a disagio. Quando si spoglia si sente il suo imbarazzo in modo credibile. Trovo…era esattamente ciò che ci voleva di fronte a Mathilde (Irene Jacob).
Come lavori con gli attori?
Io cerco di non spiegare il testo. Esploro a monte differenti direzioni insieme agli attori ma non fisso mai nulla. E’ sul set che le cose si impongono. Amo lasciare gli attori propormi qualcosa, per me è il modo migliore di portarli a quello che voglio! alcune volte quello che loro propongono è ancora meglio di quello che avevo immaginato e allora lo prendo! Mi comporto veramente come un direttore d’orchestra. Sono loro gli interpreti, loro che sanno utilizzare lo strumento che suona, non io. E’ per questo che deve venire questa cosa da loro, io li lascio trovare la nota buona anche se io la sento in fondo a me stesso. Io sono soltanto il garante di una certa coerenza del personaggio. Alla prima prova sul set chiedo agli attori di sottolineare le intenzioni un po’ come Renoir e il suo metodo sottrattivo, in questo modo i nodi della scena sono chiari a tutti, e poi così si eliminano le spiegazioni.
E questo ha il merito di uccidere ogni psicologia! in seguito si fa la potatura, si abbassa il cursore per arrivare man mano ad una sempre maggiore sottigliezza e perfezione. Questo permette anche di mantenere la spontaneità della prima prova. Io non dico mai agli attori quando e dove mettere un’intenzione, mi accontento di dire per esempio “mettici un po’ più di collera!” e lascio trovare la buona strada per esprimere questa cosa. Alcune volte i miei suggerimenti sono contraddittori e siccome gli attori si lamentano io rispondo AGGIUNGI! la verità risiede in queste contraddizioni.
Anche la musica del film piuttosto che avere a che fare con l’umore delle scene ci porta spesso lontano…
Sì, la musica serve a questo: portare qualcos’altro rispetto a ciò che la scena mostra già. E’ stato complicato per il compositore Francois Peyrony. Lui non sapeva mai cosa fare, mi domandava se doveva essere più dramma o più commedia, io gli rispondevo come gli attori: AGGIUNGI! cerca di mescolare tutte le due cose.
Una frase ricorre nel film: è meglio avere rimorsi che rimpianti…
Sì, è meglio fare le cose e sbagliare piuttosto che non farle. E’ il solo mezzo che ho trovato per andare avanti nella vita. Antoine prende in giro Ariel quando lei glielo dice, ma alla fine lo capisce. Certe volte le persone vi dicono delle cose evidenti o dei cliché e questo vi lascia basiti. Ma alla fine, quando esse producono degli effetti voi le accettate perché contengono una forma di verità. Io preferisco sempre partire da un cliché per arrivare alla verità piuttosto che il contrario.